VENEZIA PORTA D’ORIENTE

    VENEZIA PORTA D’ORIENTE

    di Paolo Capuzzo

    Quando mi è stata proposta la stesura di articoli su Venezia ho accettato con grande entusiasmo, spinto dall’amore per la città nella quale sono nato, dove attecchiscono le mie radici e nella quale ho fissato la mia dimora.

    Eppure, accingendomi alla scrittura, esitavo; restavo attonito innanzi alla sua storia vasta e multiforme, alle sue meraviglie. In effetti, mi rendo conto che una narrazione efficace di Venezia prescinde da uno sguardo diretto. Verrei accecato dalla luce abbagliante che emana, troppo lo splendoreed eccessiva la grandezza che ne rendono indistinguibili i particolari, i dettagli, le mille anime diverse che qui albergano e che si sono intrecciate in infiniti arabeschi, contaminandosi a vicenda e creando così nuova storia, nuova arte, nuova cultura, che costituiscono una nuova originale identità: Venezia, appunto.

    Come accennavo, un’analisi compiuta necessita della pallida luce crepuscolare che, lambendo le pietre, crea un gioco di ombre grazie al quale possiamo cogliere e decifrare le antiche iscrizioni che il decorso inesorabile del tempo ha sbiadito e reso quasi invisibili alla luce piena del sole.

    Qualsiasi argomentazione su Venezia va condotta con grande impegno, essendo elevatissimo il rischio della banalità o, peggio, della replica di concetti in qualche modo già sviscerati – e anche in modo più appropriato nei secoli passati da tanti illustri storici, artisti, poeti, filosofi.

    Oltre la folla di turisti distratti e chiassosi che ogni giorno brulicano lungo le calli e i campielli, rendendo spesso ardua la mobilità ai pochi residenti rimasti, si svelano,all’occhio attento, le tracce di una Venezia diversa, che ancora conserva le vestigia della sua storia mediterranea; una Venezia costituita da tante etnie diverse, che qui si sono incontrate e influenzate a vicenda; una Venezia che, a differenza di altre aree
    geografiche che ne sono state dilaniate, ha bandito dal proprio territorio lo scontro tra bizantinità e romanità, tra Cristianesimo e Islam, armonizzandone invece in un contesto originale le reciproche peculiarità.

    Qui i viaggiatori provenienti dall’Europa occidentale scoprirono l’Oriente, mentre quelli che giungevano dagli imperi di Arabi, Ottomani, Persiani e dall’Europa ortodossa trovavano l’Occidente. I primi hanno assistito alla nascita di Bisanzio, gli altri alla sua fine. «Venetiae quasi Alterum Byzantium», come la definì il cardinal Bessarione.

    Tra tante storie, a volte parallele altre volte mescolate, degna di nota appare quella di diverse comunità mediterranee e orientali che qui prosperarono sin dalle origini della città, prima ancora che le isolette attorno a Rivo Alto e a Olivolo si unissero generando Venezia come la conosciamo oggi.

    Mi riferisco alla comunità armena, di cui si documenta la presenza antecedentemente all’anno Mille, protagonista sia delle dinamiche cittadine che dell’intera Repubblica, in particolare di quelle del suo ‘Stato da Mar’, ovvero i domini marittimi della Serenissima. Altre comunità, rilevanti anche per il contri-buto demografico, in quanto costituite da cittadini della Repubblica autorizzati al libero insediamento in città, sono quelle dalmata, albanese e greca; con proprie chiese e proprie scholae, dove si riunivano fornendosi mutuo soccorso.

    Per quanto riguarda Venezia e l’Islam, in epoche di guerre di religione e scontri di civiltà, la Repubblica scelse sempre un approccio pragmatico e reciprocamente vantaggioso con tutte le potenze più vicine – dalla grande umma araba ai califfati Fatymidi (in particolare l’Egitto), passando per isultanati persiani senza tralasciare il meno antico Impero Ottomano, con il quale, nonostante le continue dispute per il possesso dei territori d’oltremare, mantenne sempre attive le relazioni commerciali e diplomatiche. Dei rapporti con questi Stati si ritrovanotestimonianze sia a Venezia stessa sia, in misura maggiore, presso le comunità veneziane stanziate nelle principali città della Turchia, della Grecia e della Siria.

    Altro intreccio interessante, tutto legato allo ‘Stato da Mar’, è quello intercorrente tra Venezia e l’Etiopia, quando durante il XV secolo la Repubblica, nell’ambito dei rapporti di reciproca collaborazione, vi trasferì da Creta (allora fiorente isola veneziana, nella quale all’epoca si producevano icone sacre per tutto l’Oriente) un certo numero di pittori che vi mutuarono i canoni della scuola veneto-cretese, alla quale ancora oggi si ispira l’iconografia sacra etiope. Le cronache dell’epoca narrano di un certo Nicolò Brancaleone e di altri quattro artisti veneziani, che giunsero in Etiopia nel 1480 alla corte del re Eskender (1478-1494) operando lì per oltre quarant’anni. Circa vent’anni fa le autorità etiopi organizzarono una mostra a Venezia dedicata proprio a Nicolò Brancaleone e all’importanza della scuola di pittura veneto-cretese in Etiopia.

    Tra Venezia e l’Etiopia non intercorreva però solo un’alleanza suggerita dalla geopolitica, ma esistevano anche comuni radici religiose. Entrambe le chiese condivisero la fondazione da parte dell’evangelista Marco e, fino all’invasione italiana del 1937, il papa copto di Alessandria presiedeva anche la chiesa etiope; ancora oggi le cerimonie religiose etiopi prevedono l’utilizzo dell’antica lingua gheez, di cui Venezia conserva rari testi sacri, un tempo stampati dalla comunità armena mechitarista che da secoli si è insediata nell’isola di San Lazzaro, proprio di fronte alla mia abitazione.

    Ricordiamo che, grazie ai rapporti di amicizia e spesso di vera e propria partnership militare con i sultani d’Egitto, Venezia con le sue navi solcò le acque del Mar Rosso. Solo la conquista turca del mondo arabo le impedì, nel XVI secolo, la costruzione del canale di Suez in joint venture con l’Egitto – circostanza che avrebbe probabilmente cambiato il corso della storia moderna.

    Molti libri sono stati dedicati alla Venezia ebraica, dove prosperavano quattro distinte comunità israelitiche riconosciute dalla Repubblica come distinte ‘nazioni’ che frequentavano sinagoghe separate, poste a brevissima distanza le une dalle altre. Tutto succedeva all’interno di un’area, quella del Ghetto, che misurava in lunghezza duecento metri.

    Nel 1516 il Senato della Repubblica deliberò che tutti gli israeliti presenti in città fossero circoscritti in un’isoletta della Parrocchia di San Momolo nel Sestiere di Cannaregio, dove in precedenza operava una fonderia (in veneziano geto, che nella pronuncia degli ashkenaziti fu poi mutato in ‘ghetto’). Nel ‘ghetto’ si riunirono così per la prima volta nello stesso spazio ebrei sefarditi, ashkenaziti, ponentini e levantini, oltre a quelli autoctoni, i quali, nonostante l’isolamento imposto, mantennero un proficuo rapporto di simbiosi culturale ed economica con la città. Dietro anonime facciate,che passano inosservate allo sguardo del viaggiatore, si celano oggi i sontuosi interni delle cinque sinagoghe: la Scola Grande Spagnola, quella Levantina, quella Tedesca, la Scola Canton e quella Italiana.

    Un’invenzione dell’epoca, sopravvissuta fino ai nostri giorni, è il ‘marmorino veneziano’: un particolare e bellissimo tipo d’intonaco, la cui realizzazione richiede grande maestria e un cospicuo numero di ore lavorative, che simula gli stessi effetti visivi e tattili del marmo. In un’epoca in cui, per  volontà della Chiesa cattolica, era proibito, negli Stati soggetti alla sua autorità, che nelle sinagoghe si utilizzasse il marmo e altri materiali preziosi, a Venezia si inventò pertanto qualcosa che, nel rispetto di tali regole, ne eludeva però la sostanza.

    Spesso, nei secoli, il rapporto tra la Repubblica di Venezia e le sue diverse comunità religiose subì l’influenza aggressiva del potere papale, che si arrogava l’ingerenza negli affari degli Stati cristiani soggetti giuridicamente alla sua autorità. La Repubblica, ospitando sin dagli albori molteplici comunità di artigiani e mercanti, diverse tra loro per lingua e religione, e avendo a sua volta, in misura molto maggiore, delle proprie comunità ben radicate in Stati non cattolici e spesso addirittura non cristiani, da un lato rifuggiva ogni forma di discriminazione, e dall’altro architettava stratagemmi che scongiurassero lo scontro a viso aperto con il potere papale.

    Venezia, infatti, nata sulle ceneri dei possedimenti bizantini in Italia e comprendente anche molti dei territori dell’entroterra veneto, lombardo, friulano e dalmata, in seguito alla caduta di Costantinopoli e dopo la Lega di Cambrai, in nome della sopravvivenza accettò dei compromessi con il papato, pur mantenendo sempre la propria autonomia. A tal proposito si noti come lo status e le condizioni delle comunità ebraiche nei territori della Serenissima formalmente cattolici, come la stessa Venezia, fossero diversi da quelli assicurati all’interno degli Stati ufficialmente ortodossi, come Corfù e il Levante, nei quali non esisteva il ‘ghetto’ e gli israeliti vivevano mescolati ai cristiani. Un elemento di continuità è quello rappresentato a Venezia dai molti ebrei ‘convertiti’, o presunti tali, che, usciti da una comunità ricca culturalmente, ma isolata, trasferirono con abilità nel mondo dei ‘gentili’ alcuni tratti dell’esoterismo cabalista. Due esempi tra tutti, l’architetto Baldassare Longhena,che edificò tra gli altri la Basilica della Salute, la sinagoga della Scola Grande Spagnola e il Palazzo Gradenigo di fronte alla Chiesa degli Scalzi, e Lorenzo Da Ponte (il cui originale cognome era Conegliano), poeta e librettista di Mozart.

    La Venezia esoterica, profondamente mediterranea, ha quindi attinto per secoli dalle sue diverse comunità, che qui vivevano fianco a fianco. Questa contaminazione ha dato origine a realtà uniche, celate agli occhi indiscreti, che solo chi possiede le giuste chiavi di lettura poteva e può decifrare.

     

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